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Ha inventato la chitarra elettrica come la conosciamo oggi e creato una musica che a distanza di cinquant’anni mantiene intatta la sua magia. Un po’ stregone, un po’ poeta, il primo bluesman dell’era spaziale

di Riccardo Bertoncelli
cover story integrale pubblicata su Vinyl n.6 (febbraio 2019)
foto: Chuck Boyd © Authentic Hendrix, LLC

Jimi Hendrix, il mito

Non succederà più, mi sento arcisicuro nel dirlo, che irrompa sulla scena un chitarrista nuovo e diverso come capitò con Jimi Hendrix tra la fine del 1966 e il 1967.

Scrivo “chitarrista” ma la parola giusta è “musicista”, perché quel giovane nero, timido e sfrontato (un ossimoro che gli stava a modino), non solo fu capace di reinventare uno strumento, la chitarra elettrica appunto, ma afferrò come in sogno suoni nuovi, viaggiando idealmente in un cosmo che era out there ma anche deep in, dentro la sua mente, le sue fantasie, la sua anima (“soul” è una parola oggi caduta in disgrazia che all’epoca invece era molto ricercata).

Io ricordo l’emozione di quando ascoltai il suo primo LP, Are You Experienced, e un brano in particolare, 3rd Stone from the Sun. Provai una sensazione curiosa ed estasiante, e se qui lo ricordo non è per vanità personale, ma perché sono certo che lo stesso accadde a tanti altri della mia generazione, in un angolo o nell’altro del pianeta: la sensazione di ascoltare la musica che attendevamo pur senza avere la minima idea di cosa fosse, la prova decisiva che amavamo il nuovo rock per qualcosa di importante e fondamentale, mai accaduto prima, che finalmente era arrivato.
Quel “terzo sasso dal Sole”, per inciso, era la Terra, vista da un alieno che viaggiava nello spazio, una prospettiva cosmica che sarebbe tornata più volte nelle canzoni di Hendrix, una sua cifra stilistica in un intreccio di visioni, fantasie, desideri.

«È solo un sogno, ma mi piace raccontarlo a qualcuno», sussurra quel dimenticato gioiellino che è One Rainy Wish. «Il cielo aveva mille stelle e mille/ Il sole baciava il blu dei monti/ Undici lune giocavano fra gli arcobaleni sopra me e te/ Oro e rosa, le pareti di velluto intorno a noi».

Non so quanto di quello choc possa essere compreso da un ragazzo di oggi, a distanza di tanta tecnologia, dopo tanti assolo “hendrixiani” veri o presunti. Così, istintivamente, sarei portato a rispondere “poco”. Ho limpressione che Jimi sia una figurina nella polverosa foto-ricordo dei padri fondatori del rock, mentre chi si avvicina oggi alla chitarra preferisce sangue più giovane, esempi più recenti ed eclatanti.

Hendrix mi sembra un nome più citato che ascoltato, un mito che si lascia risuonare, forse anche rimbombare, senza definirlo bene.

[continua: leggi la pt. 2 di 4]

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