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Motown: una fabbrica di successi, fucina di star, fonte di ispirazione per i più grandi, dai Beatles a Prince. Gareth Murphy ripercorre le storia di una della più famose etichette discografiche. Che quest’anno compie sessant’anni ed è ormai un mito eterno della musica

di Gareth Murphy
articolo originariamente pubblicato su Vinyl n.7 (marzo 2019)
foto: Jac. de Nijs (ANEFO)GaHetNa (Nationaal Archief NL) 920-9907 – licenza CC0

Il massimo per una casa discografica è creare un suono unico e riconoscibile, che la distingua da tutte le altre e segni un’epoca. Pochissime ci riescono. E, ancora oggi, nessuna ci è riuscita meglio della Motown che, come dice Smokey Robinson, «è la cosa più grande mai accaduta nella storia della musica».

Che un’impresa famigliare nata nella cucina di casa in un sobborgo di Detroit abbia potuto regalarci così tanti capolavori e star della musica popolare è già semplicemente incredibile. Tuttavia, definire la Motown una fabbrica di successi significa tributarle solo una parte del merito che le spetta. La Motown è stata un’organizzazione complessa – un laboratorio creativo, uno studio di produzione, un’etichetta, un editore, una scuola di ballo, una casa di moda, un tour operator, un’agenzia artistica e persino un consulente finanziario, tutto allo stesso tempo – un’impresa costruita per eccellere in ogni campo. Senza paura di esagerare, si può dire che sia un caso di successo ineguagliato nell’industria discografica e un punto di riferimento ancora attuale.

Merito anche della profondità delle sue radici culturali, che affondano nel duro ma fertile terreno della Georgia del XIX secolo, dove il nonno di Berry Gordy, il fondatore dell’etichetta, è nato e vissuto come schiavo fino all’età di 11 anni. Questo “primo” Berry Gordy è il figlio illegittimo di una schiava di colore e del suo proprietario bianco. Non riconosciuto dal padre biologico, riceve un’educazione spartana, che non gli impedisce di dimostrare con determinazione tutto il proprio valore. Diviene un coltivatore e un impresario locale così accorto che, quando muore a sessant’anni colpito da un fulmine, può lasciare all’erede Berry Gordy II di che continuare la tradizione di famiglia.

Questo secondo Berry, istruito dal padre su libri di diritto, sposa un’insegnante e riesce a risparmiare così tanto che nei turbolenti anni ’20 il clan dei Gordy è costretto a lasciare la natia Georgia per ragioni di sicurezza. Nel 1922 la famiglia si sposta a Detroit, all’epoca in pieno boom economico grazie alle fabbriche Ford e Chrysler affamate di operai. Nel Michigan Berry II apre una verniciatura, una stamperia e una drogheria con il nome di Booker T. Washington, lo scrittore afroamericano le cui idee saranno alla base della filosofia Motown.

Nella sua autobiografia, Up From Slavery, pubblicata come libro nel 1901, Washington sostiene che «tutto ciò che ottengo, e che valga la pena di avere, è frutto del duro lavoro». Figura controversa fra gli attivisti per i diritti civili degli anni ’60 per il suo approccio conciliante e non conflittuale, Washington affermava che la lotta per la parità dei diritti sarebbe fallita e che la gente di colore avrebbe fatto meglio a industriarsi da sola per sfuggire alla povertà e alla sottomissione. Una filosofia che Berry Gordy II sposa con convinzione. Sua moglie Bertha non gli è da meno, tanto da iscriversi al college ormai adulta, aprire una sua compagnia di assicurazioni e lavorare come volontaria per la sezione locale del partito democratico.

Attorno al tavolo della loro affollata cucina le idee fioccano in continuazione. Che siano i figli a voler vendere alberi di Natale sul retro della casa o le figlie che si assicurano la vendita di sigarette nel jazz club della città, il loro spirito di iniziativa è talmente contagioso da attirare come un vortice anche amici e fidanzati.

Una saga famigliare

Harvey Fuqua è uno di questi. È stato membro dei Moonglows, un gruppo R&B con cui ha inciso dei 45 giri di discreto successo nella seconda metà degli anni ’50, per poi diventare un discografico indipendente. Poiché frequenta Gwen, una delle sorelle Gordy, la famiglia ha l’opportunità di seguirne le vicissitudini professionali, come il dover pagare gli stampatori di dischi in anticipo e aspettare però 90 giorni prima di essere a sua volta pagato dai distributori.

È Fuqua che aiuta un’altra sorella, Anna, a mettere in piedi la prima label della famiglia, la Anna Records, che ha un accordo di licenza con la Chess di Chicago. Nel frattempo, uno dei fratelli più piccoli del clan, Berry III, ex pugile, dopo il fallimento del negozio di dischi che ha aperto, decide di dedicarsi alla scrittura di canzoni. Mentre lavora alla Ford per pagare gli alimenti alla moglie da cui si sta separando, ha il tempo di firmare due successi con la sua personale etichetta, la Tamla: Reet Petite per Jackie Wilson e, nel 1959, Money (That’s What I Want) per Barrett Strong, che concede in licenza all’etichetta della sorella.

La famiglia ci mette poco a capire che Berry ha un vero talento musicale e che è il caso di studiare seriamente il music business. Per fare soldi, una casa discografica ha bisogno di avere i diritti su tutto quanto produce, ma il problema per i discografici di colore sono i flussi di cassa (Fuqua docet). Banche che prestino denaro per un’impresa così rischiosa non se ne trovano, quindi bisogna avere un flusso continuo di titoli di successo che affianchino altri introiti, in particolare quelli derivanti dalle licenze e dalla gestione degli artisti, con annesse partecipazioni radiofoniche, concerti e attività collaterali. È così che viene concepita la Motown, come un’organizzazione leggera e a basso costo che, partendo dalla produzione di dischi, si espande negli altri ambiti dell’industria musicale.

La famiglia decide infatti di finanziare la ristrutturazione di una casa al 2648 West Grand Boulevard, che viene divisa in tre parti: al piano superiore vive e lavora Berry junior, la cantina è trasformata in ufficio, sul retro viene costruito uno studio di registrazione. A ogni membro del clan è assegnato un lavoro part-time: la sorella maggiore Esther si occupa dei contratti, Fuqua si occupa dei rapporti con le radio, due dei fratelli, George e Fuller, vengono incaricati dell’amministrazione insieme alla sorella Louyce, il cui marito musicista, Ron Wakefield, si occupa degli arrangiamenti.

Il punto di svolta

Gli artisti non vengono semplicemente messi sotto contratto: vengono adottati. Un giovane paroliere di nome Smokey Robinson, rimasto orfano di madre, viene preso da Berry sotto la sua ala protettiva. Al piano inferiore, Clarence Paul, l’uomo dell’A&R, fa altrettanto con un polistrumentista undicenne cieco di nome Stevland Morris. Ribattezzato Stevie Wonder, il ragazzo diventa una presenza fissa nella casa, così come Diane Ross, Florence Ballard e Mary Wilson, “le ragazze”, come verranno chiamate, che vi si recano dopo la scuola e sono talmente insistenti che alla fine viene loro consentito di fare le coriste. E quando Harvey Fuqua ingaggia come batterista per la band dello studio un suo amico di nome Marvin Gaye, finisce addirittura che quest’ultimo viene sedotto e sposato da Anna Gordy, di diciassette anni maggiore di lui.

L’unica posizione per cui si va ad attingere dal personale di una major è quella di responsabile delle vendite, affidata a Barney Ales, un veterano del settore, che avrà il compito di trattare con gli importantissimi distributori regionali.

La Motown produce il suo primo numero uno con Please Mr. Postman delle Marvelettes nel 1961 ma, sebbene inizi presto a dominare la classifiche di R&B, la seconda hit pop arriva solo nel 1963, grazie a Fingertips Part 2 del dodicenne Little Stevie Wonder. Il punto di svolta, infatti, avviene in coincidenza con il primo tour organizzato dall’etichetta per i suoi artisti, The Motortown Revue, nell’autunno del 1962.

Le performance sono giudicate così amatoriali che Harvey Fuqua è immediatamente nominato responsabile dello sviluppo artistico, con l’obiettivo di insegnare ai promettenti ma acerbi talenti della Casa l’arte di ballare, atteggiarsi, parlare e rilasciare interviste. Viene ingaggiato un esperto di moda Maxine Powell è incaricata di spingere al massimo l’autostima dei giovani artisti, ripetendo incessantemente come un mantra: «La vostra immagine è la vostra migliore amica».

L’altro evento che indirizza il destino dell’etichetta è la defezione di Mary Wells. Nel 1964 porta al successo My Guy, la prima clamorosa hit della Motown, ma si lascia lusingare dalla corte della divisione discografica della Twentieth Century Fox, che le offre 500.000 dollari di anticipo. Per sottrarsi agli obblighi contrattuali, Wells cita in giudizio la Motown, sostenendo di essere stata minorenne al tempo della firma del contratto. Vince la causa, ma perde la carriera. Per citare il suo biografo, Peter Benjaminson, «ha fatto la scelta sbagliata e non riesce più a porvi rimedio». Con la nuova etichetta Mary si dimostrerà un flop e perderà anche l’opportunità di girare un film che le è stato inizialmente promesso.

Il tenace Berry, invece, non si dà per vinto e punta tutto sulla sua ragazza “segreta”, Diane Ross, la cui voce vellutata sembra destinarla alla grandezza. La spedisce in una costosa scuola privata, dove la giovane e fragile Diane si trasforma in Diana, enigmatica e catalizzante principessa del pop. Anche il suo gruppo di supporto viene ribattezzato: le Primettes diventano le Supremes che, nonostante la strada verso il successo sia lastricata di ben nove fallimenti, non smettono mai di lavorare sodo. «Andavo matto per le Supremes», dice Fuqua ricordando i loro show elettrizzanti, «erano bravissime!». Sottoposte a un addestramento durissimo, le giovani artiste non ce l’avrebbero mai fatta se alla base del loro rapporto non ci fosse stata una solida amicizia.

«Della Motown posso dire solo una cosa», ribadisce Smokey Robinson, «era una famiglia, è la verità non un mito». Le ore di lavoro sono inframezzate a barbecue, partite di football, picnic, nottate di poker, persino furiose sfide a ping pong. E le porte della Casa sono sempre aperte alla comunità locale. Ogni settimana si svolgono audizioni e concorsi canori, dove anche le creazioni del grande capo sono messe ai voti da impiegati e teenager.

All’interno della Motown finisce così per imporsi un trio di autori, conosciuti collettivamente come H-D-H (Lamont Dozier, Brian Holland e Eddie Holland), che si dimostreranno delle autentiche macchine da hit. Anche nello studio di registrazione vale la medesima regola: il duro lavoro paga. Ne sono dimostrazione lampante la cantante Martha Reeves e il batterista Marvin Gaye, che da anonimi turnisti conquisteranno un posto nell’olimpo dei grandi.

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